E dopo la Festa della Liberazione senza la libertà, ecco la Festa dei Lavoratori senza il lavoro.
Da diversi decenni e’ ormai così.
Forse da sempre.
Comunque, due giorni di festa per pochi intimi.
Anche perché, chi può ancora permetterselo, si prende 1 settimana di ferie e scappa dalle città.
Non e’ mai fregato a nessuno della libertà e del lavoro, diciamocelo chiaramente.
Ed e’ forse questo il motivo per cui oggi siamo orfani di entrambi.
I due argomenti, una volta considerati valori assoluti e non contrattabili, sono strettamente collegati: quale libertà può esserci senza lavoro? E quale significato assume un lavoro senza la libertà?
E tutti noi, oggi, possiamo toccare con mano questa situazione dove entrambi i soggetti della discussione sono praticamente assenti.
A meno che non si stravolga il significato delle parole, o il senso intrinseco delle stesse, come spesso e’ avvenuto negli ultimi tempi.
Oramai viviamo un tempo in cui, se non sei un privilegiato, devi lavorare per poter campare, senza che questo dia un significato alla propria vita; ma puoi lavorare solo finché sei ubbidiente, produttivo, competitivo e conveniente.
Il capitalismo ha sempre avuto al suo interno questo scenario, ma è soltanto negli ultimi anni che abbiamo potuto vedere e toccare con mano l’applicazione di questa visione dispotica, nel silenzio assordante, o addirittura il sostegno attivo, di chi invece doveva difendere lavoro e lavoratori.
Giovanni Paolo II amava ripetere che la pace richiede quattro condizioni vitali: la verità, la giustizia, l’amore e la libertà .
Queste parole, spesso pronunciate per descrivere una condizione auspicabile politicamente dagli Stati e dalle Nazioni mondiali, Io credo valgano anche per descrivere la condizione psicologica necessaria ad ogni singolo uomo, utile a raggiungere un suo equilibrio di pace interiore.
Notate l’assenza di qualcuna di queste condizioni, oggi, sia dentro che fuori di voi?
Facciamo qualche esempio.
Prendiamo in esame quella che tutti oggi indicano come “libertà”.
Molti la chiamano cosi’ perché oggi, ad esempio, che è un giorno di festa, una volta alzati dal letto e sbrigate le faccende domestiche, possono uscire, prendere l’auto o un qualsiasi altro mezzo e andare dove gli pare.
Non sto a rimarcare il fatto che solo pochi mesi fa non era proprio così, e tale situazione può, in qualunque momento, ripetersi, ma ieri come oggi, è veramente cosi’?
A parte il fatto che sempre più persone non hanno una casa e un letto, o hanno il timore di perdere entrambi entro poco tempo (e questo e’ importantissimo sotto tutti gli aspetti, perché l’uomo è un animale sociale, vive in società, e quindi l’aspetto delle condizioni della società in cui vive, dovrebbe essere messo ai primi posti in ogni discussione a descrizione dei valori sopra citati), ma chi può permettersi di fare certi “movimenti”, non pensa mai a quante limitazioni e controlli è sottoposto oggi rispetto a ieri?
Telecamere, autovelox, telepass, carta di credito, per dirne alcuni.
A quanti enti e associazioni dobbiamo dare conto di ogni nostro singolo movimento?
Io non ho remore a definirla una vera e propria “libertà vigilata”.
E questa e una forzatura che ci siamo auto imposti. Abbiamo dato, alla nostra psiche, un biscottino.
Abbiamo ceduto parte delle nostre libertà naturali, cui tutti abbiamo diritto dalla nascita, per “sentirci liberi”, delegando ad altri le decisioni importanti che riguardano le nostre vite in cambio di una vita più comoda, e non più libera.
Paradossalmente, chi non ha lavoro, e non può permettersi di viaggiare o di utilizzare certe “comodità”, risulta più libero da certe controlli, ma i suoi movimenti sono limitati da altri evidenti fattori.
Quindi, per come le vedo io, le nostre vite di uomini, lavoratori o disoccupati, oltreché legate da catene invisibili (tasse, mutui, debiti), che nulla hanno a che fare con il sostentamento stesso della propria vita, sono rinchiuse dentro delle scatole, più o meno grandi e confortevoli a seconda della disponibilità o meno di un lavoro.
Il tutto sotto stretta sorveglianza di chi ha sempre deciso, e decide ancora oggi, quale sia il livello di dignità sopportabile da ognuno di noi, imponendo sempre più leggi e regole, anche assurde, per mantenere comoda e grande la propria di scatola. Perché sia chiaro: ci sono scatole grandi come il mondo, ma sempre di scatole si tratta, e la vita li dentro non e’ meno opprimente che nella vostra.
Solo più comoda.
E’ lei, la “comodità”, il nuovo valore assoluto.
A lei abbiamo abbiamo sacrificato la nostra già precaria libertà e soprattutto le abbiamo ancorato il nostro lavoro, cambiandogli il significato.
Ci siamo rinchiusi in prigione consegnando le chiavi ai nostri carcerieri.
Mi spiego meglio: il lavoro dovrebbe dare dignità alle nostre vite. E la dignità di una vita prescinde dai pollici di un televisore o dalla cilindrata di un’auto cui aspiriamo.
Ma nella nuova era dell’homo consumatore, non più sapiens, sostituito nel lavoro dalle macchine da egli stesso costruite e, presto, dall’intelligenza artificiale in tutto il resto (arte, prosa, comunicazione), il lavoro odierno dà comodità alla scatola in cui ci siamo ritrovati a passare gli anni tra la nostra nascita e la nostra futura dipartita, aspettando il giorno in cui qualcuno poi deciderà (succede già) quale sia la scatola più bella e degna di essere abitata.
In pratica lavoriamo per guadagnare soldi che usiamo per scappare dal lavoro appena possiamo, per acquistare oggetti utili per il lavoro o per attenuarne il peso e gli effetti, oppure cose che danno solo l’illusione di esercitare una scelta e di offrire comodità.
Chiamiamo tutto questo libertà, ma la descrizione è quella di una schiavitù, e di una dipendenza costante da un sistema che nessuno ha scelto ma che ognuno contribuisce a perpetuare, senza sviluppare senso critico.
In definitiva, lavoro e libertà sono valori strettamente collegati, e il loro significato pieno non e’ stato ancora raggiunto e vissuto quasi da nessuno.
Solo la consapevolezza di ciò, e la auspicabile reazione di ognuno di noi, può portarci al pieno raggiungimento di entrambi.
Riprendiamoci le nostre vite, ma, soprattutto, cerchiamo di dar loro un senso che non sia il solo respirare.
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