Un cellulare, un modulatore vocale e una ravvicinata distanza; tre modalità di interazione sociale che in parte ci rimandano alla nostra attuale esitenza, fatta di confinamenti, di una lontananza incolmabile fisicamente e dall’impossibilità di contattare i nostri cari oltre le quattro mura se non con mezzi tecnologici. Vero, disponiamo di webcam e possiamo idealmente “vedere” i nostri interlocutori, ma essi ci pervengono attraverso riquadri astratti e digitali, egualmente intangibili poiché non possiamo realmente percepirli vicini, toccandoli e vivendoli esistendo insieme a loro. Serbiamo i ricordi e le sensazioni passate in loro presenza, e idealizziamo la loro assenza riempiendo quel vuoto personificando le immagini in movimento che scorgiamo su monitor; li vediamo e li sentiamo, ma sembriamo sospesi in una dimensione esterna ed estranea a noi.
Purtroppo l’avanzamento tecnologico spesso ci ha fatto dimenticare come fare ad approcciarsi alle persone, fornendo scuse al non vedersi giustificandosi con la possibilità di sentirsi, e tutto questo si ripercuote ora che possiamo soltanto sentirci; in noi pervade l’incertezza, il non sapere come e quando potremo effettivamente tornare a riveder il sole e l’altre stelle – come diceva il Dante – in compagnia delle persone verso cui proviamo affetto. Forse serviva un momento del genere per ricollegare la nostra Umanità ad un sentire e ad un piacere che condividere dei sentimenti come l’amore e lo spirito d’amicizia donano arricchendo la vita di ognuno. Purtroppo, al momento, questa condizione di lontananza ci è imposta dalla contingenza del tempo che ci troviamo a vivere, ma in alcuni casi questi sono fattori che le persone si ritrovavano a vivere anche prima: pensiamo a chi ha perso un proprio caro e può sentirlo vicino soltanto guardandone le foto e serbandone il ricordo. A dispetto di ciò, ricollegandoci allo stato attuale, possiamo sperare di poter sopperire a questa lontananza, e non è poco.
Allora perché nascondere i sentimenti quando potremmo finire con l’impossibilità di esprimerli, una volta che la logica del sentire si sostituirà alla logica del vedere? In casi come questi la logica del sentirsi annienta una parte di noi stessi. Come chi indossava delle maschere, portandole anche quando ci si poteva avvicinare l’un con l’altro celando quei sentimenti, e ora che ci si può soltanto sentire scopre come quelle maschere si dimostrino inutili.
Un cellulare, un modulatore vocale e una ravvicinata distanza; sono anche le modalità esistenziali che si trova a vivere ed a utilizzare anche il protagonista di una famoso anime/manga, ormai troppo spesso ricordato per la lunghezza estenuante della serie, oppure unicamente per i casi coinvolgenti che comunque sempre propone: parlo di Shinichi Kudo, ovvero Detective Conan.
Per chi non lo sapesse, o si ricordasse, Detective Conan narra le vicissitudini di un giovane liceale abilissimo nell’arte della deduzione, che ritrovatosi coinvolto in uno scambio di denaro viene messo a tacere da due strani tizi vestiti di nero; questi ultimi, esponenti della misteriosa Organizzazione, decidono di testare su di lui un farmaco altamente velenoso che tuttavia non uccide Shinichi, bensì lo regredisce a bambino. Da quel momento in poi assumerà l’identità di Conan Edogawa e si farà ospitare in casa del detective Goro e della figlia Ran, celando la sua vera identità, per poter indagare sulla misteriosa Organizzazione e ritornare così adulto. Se questa è la trama principale dell’opera, presto ci si ritroverà invischiati in numerose sottotrame e infinite indagini a sé. Ma non è questo il punto che voglio trattare: infatti, oltre a tutto ciò, la serie ci permette di analizzare a fondo ciò che lega Ran a Shinichi e che in assoluto è l’apice del racconto.
Ran e Shinichi si conoscono fin da bambini e anche se non si sono mai dichiarati provano amore l’un per l’altra, tuttavia l’età e varie alte motivazioni non li hanno mai spinti a fare il primo passo, fin quando accade l’irreparabile; Shinichi viene tramutato in Conan e per non rischiare di mettere in pericolo le persone a lui care rivelando la sua vera identità, si presenta come il figlio di un lontano parente del Professor Agasa. Come Conan può quindi vivere insieme a Ran, starle accanto e sostenerla, ma come Shinichi affronta la più triste solitudine e il senso di tormento che il non poter rivelare la sua identità e i suoi sentimenti comporta. Anche per Ran il dolore è forte, perché non può più vedere Shinichi ma può soltanto limitarsi a sentirlo via telefono, dove Conan con l’apposito modulatore vocale replica la sua voce.
Il rapporto fra Shinichi e Ran prosegue unicamente attraverso il sentirsi, utilizzando una fredda macchina, fomentando il rimpianto di non aver mai voluto far quel passo decisivo prima dell’allontanamento; per entrambi la sofferenza è forte, Ran chiama e si appella spesso a lui per ricavarne conforto, ma l’unico conforto che riceve sono i messaggi e le brevi telefonate che riceve. D’altro canto Conan seppur può vedere Ran è costretto a farlo indossando una maschera, una diversa identità, che la contigenza dei tempi lo ha costretto ad assumere.
La serie vive di questa insostenibile lontananza ravvicinata, chi osserva sà che Shinichi e Ran sono più che mai vicini, ma loro due sono più che mai lontani; ecco da una parte l’individuo che per vari motivi indossa la maschera per celare i propri sentimenti, e quindi una parte di sé, ovvero Conan, e dall’altra un’individuo che non ha saputo apprezzare appieno la possibilità di aver vicino una persona così cara, per vari motivi, e che ora può soltanto sentirla e idealizzarla dentro di sé, ovvero Ran.
Due parti di una fragilità umana comune che la contingenza e le vicissitudini dei tempi hanno costretto a venire alla luce.
Nel proseguo della storia si assisterà a dei flashback, oppure a dei sogni veri e propri, che Ran si ritroverà a vivere e che le riporteranno alla mente le avventure affrontate con Shinichi, che rimarrà così idealizzato e presente nei suoi ricordi. Pian piano si assumerà la consapevolezza dei suoi sentimenti e li rivelerà allo stesso Shinichi, mossa da un desiderio di concretizzare il suo ritorno.
Perché la storia, nonostante i momenti di sconforto, si concentra sulla caparbietà e la volontà che hanno entrambi di incontrarsi di nuovo e questo sprona Ran ad attendere sicura Shinichi, e il buon Conan ad affrontare anche le insidie più pericolose per presentarsi nuovamente di fronte a lei nella sua vera forma, senza più maschere.
Più di una volta Ran sospetterà della vera identità di Conan, poiché spesso le azioni del piccolo le ricorderanno i comportamenti di Shinichi e sebbene convinta a desistere da tali sospetti grazie ad ingegnose soluzioni trovate da Conan, forse inconsciamente sentirà a sé la presenza del giovane detective proprio per tramite del piccolo. D’altronde la scomparsa di uno e la comparsa dell’altro sono gli avvenimenti che hanno mutato corso alla sua vita.
Non per nulla bisogna tenere in considerazione il ciclo vitale che vive Shinichi passando dall’essere un liceale al riscoprirsi bambino, interiorizzando così i cambiamenti che accompagnano ogni persona comune e le situazioni che si fanno percepire diversamente a seconda dell’età, maturando infine nell’età adulta.
Molto spesso nel leggere e “vivere” le storie che più ci appassionano ci fermiamo soltanto ad analizzarne il proseguimento della trama, lasciando da parte l’evoluzione dei personaggi che hanno tanto da dirci: in Detective Conan ho sempre apprezzato moltissimo le figure tripartite in Ran, Shinichi e Conan, godendo della loro evoluzione e di richiami che probabilmente in pochi hanno saputo cogliere. Il loro esempio, perfino i mezzi utilizzati per far coesistere queste figure, mi hanno subito fatto correre alla mente un percorso così affine a quello umano e delle sensazioni che in molti ci troviamo a vivere tutt’ora. La logica del vedersi e percepirsi data per scontata, spesso relegata in secondo piano grazie ai mezzi tecnologici che hanno posto la logica del sentirsi e distanziarsi come primaria; un senso di logica individualizzazione e solitudine ricercata non come mezzo per ricercare sé stessi, ma per allontanarsi dagli altri.
Poi arriva un virus e paradossalmente la logica del sentirsi diventa l’unica strada percorribile e allora ci si accorge che prima probabilmente si sbagliava approccio; perché ora ne constatiamo tutta l’inadeguatezza.
Ciò che accomuna la nostra condizione a quella di Ran o Shinichi oppure a Conan è la sensazione che passeremo queste difficoltà perché lo vogliamo, ma allo stesso modo porta alla luce l’incertezza e l’inquietudine del non sapere quando questo avverrà e come avverrà. Quello che è certo sarà la necessità di un cambio di paradigma per come abbiamo vissuto fin’ora, e di come abbiamo interiorizzato l’affetto, l’amore e lo spirito di amicizia quando vivevamo per la logica del sentirsi.
Ran e Shinichi torneranno a rivedersi cambiati e diversi, ma sapranno assaporare e riusciranno a non rimandare e a non celare più le occasioni e i sentimenti che vivranno in quel momento, e che spinti dalle loro vicissitudini hanno per lungo tempo nascosto nel profondo dei loro cuori…la logica del vedersi renderà obsoleti i modulatori vocali e i cellulari, perché potranno dirsi ciò che solo ascoltandosi non avevano possibilità di rivelarsi.
In quanto a noi, forse ci risveglieremo indolenziti e frastornati come Goro quando risolve i suoi casi…e forse scopriremo che sono stati gli aghi soporiferi e l’ingegno di un liceale divenuto bambino a permetterci di arrivare di fin qui; ma ce ne prenderemo comunque il merito.
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