Antoine l’aviatore
Antoine l’aviatore

Antoine l’aviatore

Con gli occhi arrossati dal vento se ne stava disteso, inerme, sotto la rovente lamiera che un tempo fungeva da fusoliera; a vederlo così, quello che un tempo rappresentava un biplano pareva ora una stanca e scarnificata carcassa appartenente ad un qualche strano uccello esotico. Eppure, soltanto qualche giorno prima, quel prodigio dell’ingegno umano vorticava incessantemente da un continente all’altro, ubriaco di carburante e tracotante di umana onnipotenza.
Tuttavia, se la natura non ha donato ali adibite al volo all’uomo, e questi ultimi arroganti se le sono costruite cangiando l’acciaio, una qualche punizione dovevano pur aspettarsela…il cielo non è affar loro, essi son di lassù soltanto ospiti, in misura anche maggiore rispetto al suolo terreno dove bellamente tiranneggiano credendosene i padroni.



Abitando il deserto ne ho visti parecchi di uomini cadere dal cielo, a volte con una leggiadrìa di molto distante da quella di un uccello planante, e molte altre volte invece con uno schianto così rumoroso e molesto che par volessero, pur precipitando, figurare onnipotenti.
Eppure, ogniqualvolta assistevo a scene simili, non potevo far altro che provare profonda compassione per quelle strane creature, così inquiete nella loro natura da spingersi sempre oltre il limite; da semplice animale quale sono non potevo capire come ci si potesse sentire ad essere umano, tantomeno mi andava di comprendere delle creature tanto egoiste. Ma questo non mi impediva di provare una certa curiosità, e anzi spesso mi avvicinavo agli accampamenti per sentir le loro storie. Parlavano di posti che non avevo mai visto, di come avessero volato ed affrontato tante insidie per portare delle “lettere” – come le chiamano – e di quali timori provavano sospesi nel cielo, ciononostante nessuno di loro se ne lamentava, anzi, parevano sempre più ansiosi di librarsi in volo.

Ma sono diffidente, per natura e per scelta, e non mi sono mai avvicinata quel tanto che bastava da farmi vedere, mi muovevo con il buio e mi approcciavo a loro solo a stomaco vuoto, giusto per prepararmi ad un’eventuale fuga. Siamo creature diverse, distanti, ed è meglio rimanere tali. Cionondimeno ho imparato molto ascoltando quei loro discorsi così avventurosi, e mi son trovata spesso ad osservare il cielo in attesa di vedere uno di loro cadere a terra.
Ed ecco che l’oggetto della mia curiosità se ne stava disteso aldisotto della fusoliera, stanco ed emaciato, ma miracolosamente ancora in vita qualche giorno dopo la sua caduta. Per la prima volta la distanza che mi separava da un umano era molto ridotta, d’altronde non avrebbe potuto far del male ad una mosca: rinsecchito, con l’esile figura che si spostava ad ogni folata di vento, le labbra spaccate dalla secchezza dovuta alla mancanza di acqua, impegnato in chissà quali riflessioni mentre aspettava forse di morire. Gli umani non lo sanno, ma noi Volpi del deserto abbiamo la facoltà di capire il loro linguaggio, anche se non riusciamo a comunicarci visto che ignorano il nostro…ma quell’uomo era diverso.

Per qualche strana ragione, dovuta alla vicinanza con la morte o alla caduta dal cielo oppure a un qualche strano scherzo della natura, non so – ancora non ne comprendo il motivo tutt’ora – quell’umano riusciva a comprendermi; fù così che cominciammo a parlare e diventammo compagni, e complici. Io prestavo le mie orecchie ai suoi racconti, mentre in cambio lo confortavo con la mia compagnia…che strano, fù forse così che l’uomo addomesticò il cane molti anni prima?
Imparai molte cose da lui e compresi come i sentimenti che animano il cuore e lo spirito di un’uomo, benché inspiegabili per un animale, siano molto più complessi di quanto non traspaiano e come non siano frutto solo di un istinto egoistico di sopraffazione. Quell’aviatore – così vien chiamato l’uomo che vola – non si librava in cielo per sete di conquista o per arroganza, piuttosto lo faceva per meglio osservare “l’essenza delle cose”, tanto che considerava l’uccello di latta che guidava come l’estensione materiale del suo spirito; mi insegnò che non tutti gli uomini son fatti per calpestare la terra. Per lui volare era come respirare, e solo così riusciva a guardare ciò che lo circondava con il dovuto distacco, comprendendo altresì che “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Pareva un bambino, tanto luccicavano i suoi occhi mentre parlava del cielo, e forse fù proprio la combinazione della sua più profonda natura con il suo spirito a renderlo capace di comprendere il mio linguaggio…esattamente come volando riusciva a scorgere ciò che con la vista non riusciva a vedere, ascoltandomi riusciva a comprendere ciò che il mio cuore voleva comunicargli.
Il cielo per gli umani è il limite senza confini di un infinito viaggio, e non importano i rischi che accompagnano il loro peregrinare fra le nuvole poiché soltanto lambendo il manto stellato si sentono ripagati dall’aver sollevato i piedi da terra.
L’unione dell’aviatore con il suo biplano, e anche con i compagni che condividono la stessa fame di altitudine permettono agli uomini come lui di stringere legami ancora più forti, ed indissolubili, rispetto a quelli che vengono instaurati dagli umani di terra.

Quante avventure mi raccontò, quanta angoscia e solitudine trasparì dalle sue parole, ma anche forza e volontà come quella che animò un suo amico che sopravvisse per ben sette giorni disperso in un posto molto lontano; a tenere vivo l’aviatore furono i legami che egli aveva instaurato, quelle persone che voleva riabbracciare con così vivida determinazione da compiere un impresa impossibile. Anche lui voleva sopravvivere mi disse, i suoi legami lo richiamavano dall’oblio della sabbia del deserto, non poteva rimanere lì a disciogliersi fra il vento e la sabbia, doveva ritornare a casa per raccontare attorno ad un fuoco quelle avventure ai suoi compagni, al suo amore. Benché io fossi ormai così legata a lui compresi che il suo posto non era fra le dune del deserto, bensì fra le nuvole in alto nei cieli.
Lo accompagnai, dalla triste e obliata morte che lo aspettava, verso le luci dei suoi simili lasciando alle sue mani il tatto della mia pelliccia calda nelle fredde notti del deserto.

Per la prima volta provai tristezza perché una volta salvo da quella situazione ero sicura che il mio umano mi avrebbe dimenticata, noi animali viviamo per noi stessi e alla nostra morte nessuno conserva il nostro ricordo…ma il mio umano mi rassicurò: il legame che ci univa, nonostante la nostra natura ci avrebbe ben presto diviso, sarebbe rimasto saldo e mai sarebbe stato dimenticato. Egli scriveva su dei “libri” e avrebbe parlato della sua esperienza e di me, cosicché anche alla sua morte il nostro legame sarebbe sopravvissuto per sempre. La nostra storia avrebbe continuato ad animare i racconti degli uomini accanto ai falò, e chi lo sà se in futuro un’altra Volpe del deserto curiosa come me potrà sentire il racconto di Antoine l’aviatore e della sua Volpe.

Il giorno del nostro addio – o del nostro arrivederci, come lo chiamava l’aviatore – arrivò e le nostre strade si separarono..un batuffolo del mio pelo fù la testimonianza del nostro incontro; il tempo passò, tuttavia nel vento del deserto e nel mio sguardo rivolto al cielo, mai il suo ricordo mi abbandonò, e il suo nome ancora mi accompagna ogniqualvolta i miei ricordi tornano a quel giorno perso nella polvere del tempo, e ogni volta lo ripeto vivido nella mia memoria: il mio umano si chiamava Antoine de Saint-Exupéry.

“Le avventure di quell’aviatore e il giorno dell’incontro con la Volpe rivivono tutt’ora, ogniqualvolta si sfogliano le pagine del “Piccolo Principe” e de “La Terra degli Uomini”, pagine che contribuiscono a formare milioni di bambini e ragazzini che crescono con la speranza di trovare la propria Volpe – ad Antoine, Aviatore dall’indomito coraggio”

– Più sù in alto dei cieli fra le nuvole volano gli aerei, chissà che una volta lasciata questa terra ci si ritrovi a volare, sfiorando le ali in un turbinio di spiriti e di slanci vitali –

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