Un uomo che giunse dal nulla, colse l’occasione che la rivoluzione gli pose e da lì in poi divenne generale, poi maresciallo dell’impero ed infine re. La storia di un soldato, amante dell’azione, che può sembrar uscito da un romanzo d’avventura. Eppure parliamo proprio di Gioacchino Murat, maresciallo dell’impero di Francia, cognato di Napoleone e re di Napoli, o almeno questo è ciò che fu fino a quel tragico 13 ottobre 1815 a Pizzo Calabro, quando la sua vita indomita venne zittita dalle bocche di moschetto di un plotone d’esecuzione. Ma da quel momento in poi dove finì la salma? Dove posero i resti di uno dei protagonisti più impavidi dell’epopea napoleonica di inizio 800?
Le gesta di Gioacchino Murat sono state già raccontate su un nostro documentario, reperibile facilmente sul canale YouTube God Save the Vintage. Ma in ogni caso è doveroso dare anche qui una breve infarinatura su chi fu Gioacchino; Nato il 25 marzo 1769, il futuro re era un semplice figlio d’albergatore la cui unica ambizione era quella di fuggire dagli studi religiosi che la famiglia gli impose per raggiungere cariche ecclesiastiche. Il suo carattere libertino e avventuroso lo portò inevitabilmente a prediligere la carriera militare, servendo prima sotto la monarchia francese e poi, senza esitazioni, sotto la tricolore rivoluzionaria. Fu difatti tale scelta a portarlo il 13 vendemmiaio (5 ottobre 1795) a combattere i rivoltosi realisti per difendere la convenzione, le cui truppe difensive erano sotto gli ordini dello stesso Napoleone Bonaparte. Il suo tempestivo intervento per portare con la cavalleria i cannoni utili alla difesa, legherà i destini dei due, portando lo stesso Gioacchino a seguire fedelmente quello che poi sarebbe divenuto l’imperatore di Francia. Sposò persino una delle sorelle Bonaparte, Carolina, ma ciò non significa che Gioacchino e Napoleone andassero propriamente d’accordo.
Durante le successive campagne non esitò a criticare spesso e volentieri il cognato riccioluto, creando tra i marescialli dell’impero una costante competizione tra loro. Deluse anche le aspettative di Gioacchino riguardo una possibile sua incoronazione come re di Spagna, grado che preferì infine cedere al fratello Giuseppe. Ricevette però (oltre al ducato di Berg) il trono del regno di Napoli, legando infine le sorti di re Gioacchino con le terre partenopee. Con la grande disfatta di Napoleone in Russia e con le truppe francesi in rotta, l’imperatore venne informato di un tentato colpo di stato a Parigi che lo costrinse ad abbandonare l’armata, lasciando infine il comando proprio a Murat. Quest’ultimo però, preoccupato anch’egli per le sorti del suo regno nel sud Italia, decise infine di imitare il cognato cedendo il comando a Eugenio di Beauharnais e partendo infine alla volta di Napoli.
Giunto nella capitale Gioacchino avviò una forte corrispondenza sia con gli anglo-austriaci per tentare di trovare un accordo in merito al trono napoletano, sia con lo stesso Napoleone che nonostante tutto continuava ad ammirare come grande generale. E saltando da una parte all’altra della staccionata, quando scoprì infine la decisione inglese di rinnegare le sue proposte e il ritorno di Napoleone dall’isola d’Elba, prese infine la scelta di schierarsi nuovamente con il cognato, avviando così la guerra austro-napoletana del 1815. Inizialmente l’avanzata fu irrefrenabile e gli austriaci, gli avversari, si trovarono in estrema difficoltà. Ma con il passare delle settimane i rinforzi asburgici presero infine il coltello dalla parte del manico e in poco tempo ricacciarono i napoletani verso sud, firmando infine un trattato di pace a Casalanza il 20 maggio 1815 che mise fine al dominio filo napoleonico nel mezzogiorno. Ma mentre i generali firmavano Murat fuggì verso la Corsica e lì, nonostante i consigli contrastanti dei suoi fedelissimi, organizzò un’altra piccola spedizione con la speranza di far risollevare il regno dal ritorno dei Borboni. Il viaggio di ritorno non fu senz’altro facile (come detto poco fa, il nostro documentario saprà darvi informazioni maggiori), finché la nave su cui era imbarcato non raggiunse il porto di Pizzo Calabro l’8 ottobre 1815 per tentare un rifornimento. Qui l’ex re decise di palesarsi al popolo, facendosi riconoscere come il loro legittimo sovrano. Ma se all’inizio la popolazione rispose dubbiosa a quelle acclamazioni, ben presto la situazione peggiorò vistosamente. Difatti degli agitatori antinapoleonici non ci misero molto a schierare i pizzitani contro Gioacchino, avviando una scaramuccia che convinse il capitano della nave a fuggire e portando conseguentemente Murat alla cattura. Da qui in poi si avviò una frenetica mossa dei borboni e degli inglesi, avviando in poco tempo un processo militare che portò inevitabilmente alla condanna a morte di uno dei più grandi generali sotto l’ex imperatore di Francia. Al momento della sua condanna, poco prima che i moschetti sparassero, divenne famosa la sua celebre frase “mirate al petto, risparmiate il viso”. Ma ora sporge spontanea la domanda; ora dove si trovano i suoi resti?
Secondo il dettagliatissimo libro di Franco Cortese, ovvero “sbarco cattura e fucilazione di Gioacchino Murat a Pizzo Calabro nel 1815”, e di documenti della diocesi di Pizzo Calabro, al compimento della fucilazione il corpo esanime venne frettolosamente posto all’interno di una malmessa bara foderata di taffetà nera e portato presso la chiesa di San Giorgio dell’omonima cittadina (luogo che tra l’altro finanziò lui stesso nel 1810 per completare i lavori di ricostruzione dopo il tremendo terremoto del 1783) e gettato nella fossa comune di recente costruzione, dove si trovava solo un altro cadavere conosciuto in vita come Cimminà. Verso la fine dell’800 alcuni membri del ramo della famiglia tentarono di recuperare il corpo per seppellirlo presso la certosa di Bologna, avviando il 23 aprile 1899 una notevole cerimonia di riapertura della fossa che attirò tutti i pizzitani incuriositi. Vista la stazza poderosa del defunto Murat e la notevole altezza, i parenti pensarono di poter trovare facilmente il corpo, dove in teoria si trovavano ben pochi cadaveri. Ma all’apertura faticosa del coperchio, situato presso la navata della chiesa, rimasero tutti dispiaciuti nel constatare che la fossa era fin troppo colma di ossa e bare impolverate, cosa che costrinse a bloccare le ricerche. Il notevole riempimento della fossa, causata dalla letale pandemia di colera del 1837 che fece strage a Pizzo, costrinse l’abbandono delle ricerche fino al ben lontano 1976, quando durante il restauro della pavimentazione monsignor Giuseppe Pugliese concesse l’apertura di un piccolo foro sopra la fossa per scattare alcune foto. I ricercatori ed appassionati aprirono un foro di trenta centimetri e con l’ausilio di una lampadina di alcune macchine fotografiche constatarono l’evidente stato di degrado del luogo sotterraneo, dove chissà dove giacevano ancora malmesse le ossa del defunto re.
Dopo però un’attenta analisi delle foto, inviate anche presso l’associazione murattiana di Labastide Murat, città d’origine di Gioacchino, si denotò una malmessa bara da cui pareva fuoriuscire uno stivale di evidente fattura napoleonica, cosa che emozionò gli appassionati della tragica storia del cognato di Napoleone. Nonostante l’attivazione di associazioni e dello stesso console generale di Francia Gerard Serre, la riapertura della botola per delle analisi più dettagliate non avvenne fino al 2016, quando sotto gli occhi di chi fotografò nel 76 la fossa e di alcuni membri de “la Stampa” si poté constatare un ovvio degrado della cripta, luogo dove le ossa avevano oramai avvolto ogni traccia della bara. L’unico modo per giungere ad un definitivo ritrovamento e alla conseguente riesumazione è attuando delle ben più dettagliate analisi scientifiche da parte di governo e da soprintendenza, svelando dopo 207 anni i resti di uno dei più grandi personaggi dell’epopea napoleonica. Vi lascio in ogni caso il video della riapertura della fossa qui sotto.
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