Il dibattito sulla definizione dei generi letterari è una questione ancora irrisolta sin dal 1400, epoca rinascimentale, e il concetto risulta ancora in evoluzione. Ciascuna forma letteraria nasce e si sviluppa in un particolare contesto che ne determina la forma, ha dei destinatari più o meno precisi, e possiede specifiche peculiarità di scrittura e modelli di riferimento.
Nei miei precedenti articoli ho cercato di chiarire come anche il Fantasy, genere letterario di recente concezione, si inserisce in questo eterno dibattito perché di difficile inquadramento descrittivo. Sono vari gli elementi che lo contraddistinguono (magia, esseri soprannaturali, mondi immaginari), ma questi non bastano a rendere un semplice romanzo di fantasia un “Romanzo Fantasy”. Questo genere richiede dei fondamenti ben più profondi di semplici regole compositive. La mentalità della cultura contemporanea porta a non prendere quasi per nulla sul serio questo genere. Anche se la lunghezza di un romanzo come Il Signore degli Anelli (oltre mille pagine) e la sua complessità nel linguaggio e nel messaggio, mostrano chiaramente che non si tratta di un’opera destinata ai bambini, in molti, ancora oggi, rimane il sospetto di un’opera infantile. L’unica spiegazione plausibile a simili affermazioni è che il relativismo, così profondamente ancorato nella nostra cultura e società, talvolta confonde le nostre prospettive. Com’è possibile, altrimenti, giustificare coloro che considerano “semplicistica” la netta distinzione tra il bene e il male che contraddistingue tutte le opere Fantasy e, in particolar modo, Il Signore degli Anelli?
La fede cristiana può allora giungere in soccorso della ragione e aiutarla a vedere chiaro, come ricorda Giovanni Paolo II nella sua enciclica “Fides et ratio”. Solo con la fede cristiana si può proclamare, al di là delle confusioni e delle sfumature, ciò che Aragom, protagonista del romanzo, afferma quando gli viene chiesto come si possa giudicare in tempi così difficili: “Il bene e il male non cambiano con il tempo e non sono diversi per gli elfi, per i nani e per gli uomini…”. E qui torniamo ad un punto fondamentale della questione: come può un’opera giudicata infantile, priva di ogni riferimento religioso e che non contempla alcuna religione al suo interno, neppure di fantasia, promulgare simili messaggi morali ed educativi? Quale grandezza e consapevolezza deve aver raggiunto il suo autore? Perché la critica mondiale continua a trascurare, per usare un eufemismo, tutto ciò?
“Il Signore degli Anelli”, secondo alcune statistiche, è il libro più letto al mondo dopo la Bibbia. Questo dato è sorprendente e spinge a riflettere, non solo perché è un successo ottenuto malgrado il silenzio o addirittura l’ostilità della critica, ma anche per un altro motivo. A mio parere, chi non ha letto o voluto leggere la Bibbia ma ha gustato e vissuto con passione l’epica del «Signore degli anelli», ha finito, senza saperlo, per leggere la Bibbia! Uno dei massimi poeti di questo secolo, J.L.Borges, soleva dire come lui non amasse scrivere per una scelta minoranza, e nemmeno per “le masse”, ma: “io scrivo per me stesso e per i miei amici, e scrivo per alleviare il passaggio del tempo.”. Questa frase spiega in modo profondo e preciso l’esperienza di due scrittori come Tolkien e Lewis. I due, entrambi professori di filologia ad Oxford, erano amici e, non trovando molto interesse per la letteratura che girava in quel tempo (siamo negli anni ‘30), si dissero l’uno l’altro: proviamo a scrivere noi qualcosa? Nacquero così le due trilogie: quella ambientata nello spazio, “Lontano dal pianeta silenzioso”, scritta da C.S.Lewis, e quella ambientata nel tempo, in un medioevo rivisitato, scritta da Tolkien, appunto «Il Signore degli Anelli». Per almeno due decenni, ogni giovedì, Tolkien e Lewis, insieme ad altri amici, tutti o quasi interni al mondo accademico di Oxford, si riunirono in una sala del Magdalen College o in qualche pub, e per fare le ore piccole a parlare di letteratura, a leggersi l’un l’altro i propri componimenti, a commentarli, a dibattere su tutto (dalla critica letteraria al divorzio, dal voto alle donne alla guerra civile spagnola), e soprattutto a ridere e a scherzare come ogni gruppo di buoni amici che si rispetti. Questo aspetto dell’amicizia e dell’allegria mi sembra importante. Ricordiamo che era l’epoca in cui l’Europa veniva dilaniata dalle dittature e poi dalle atrocità della guerra mondiale. Eppure questo piccolo gruppetto non rinuncia al suo momento rituale di svago settimanale. Altri grandi autori di quell’epoca (Bernanos, Claudel, Peguy, Mauriac, Bloy, Maritain, solo per citarne alcuni) vivevano immersi nel mondo della cultura del loro tempo. Tolkien e Lewis invece si muovono in uno splendido isolamento, al di fuori soprattutto di ogni mondanità.
Quando si conoscono, al termine della Grande Guerra,Tolkien è un fiero cattolico romano, mentre Lewis invece si dibatte ancora nell’ateismo. Lui stesso si descrive in quella situazione: “Credevo che Dio non esistesse e in più ce l’avevo con lui perché non esisteva”. Gli bastano però pochi incontri con Tolkien per dichiararsi un cristiano militante.Per capire molto dell’opera di Lewis, non si può prescindere da questo fatto: Lewis è un convertito, e come spesso capita in questi casi, il discepolo supera il maestro. Rimase all’interno della chiesa anglicana, resistendo alla chiamata dell’amico, e con grande forza non perse occasione per diffondere il Verbo cristiano. Prova ne sono le sue opere come “Mere Christianity” e “Sorpreso dalla gioia”, da “Le lettere di Berlicche” a “Diario di un dolore”. Possiamo affermare, senza possibilità di errore, che Lewis anticipa la strada dell’ecumenismo con alcuni decenni di anticipo rispetto alla storia. Quello di Lewis è un tipo di cristianesimo che, in comune con quello di Tolkien, ha una forte rivalutazione della ragione, del buon senso e dei valori tradizionali. Anche in questo, possiamo dire, che i due sono figli spirituali di Chesterton, e se tutti e tre fossero vissuti nello scorso ultimo scampolo di secolo, non ci saremmo dovuti meravigliare a vederli tra i consulenti laici di Papa Wojtyla per la stesura dell’ultima enciclica, “Fides et ratio”. Questi i punti in comune tra i due più importanti autori del genere Fantasy. Ma esistono anche dei punti in contrasto. Ad esempio: Lewis, da protestante anglicano, ha sempre presente di fronte a sé la Bibbia, il libro che più di ogni altro interroga, trasforma chi gli si avvicina, mentre Tolkien scrive per sé e per qualche amico come Lewis, non certo per gli specialisti o gli intellettuali, né tantomeno per le masse (come suggeriva Borges). Il testo biblico, in Tolkien, viene avvertito in controluce, tanto più che questa lettura della sua opera non è accettata da alcuni critici né avvertita da molti lettori. Lui stesso si renderà conto del contenuto cattolico della sua opera solo correggendo le bozze del suo libro prima della pubblicazione, come ammetterà in una lettera all’amico prete Robert Murray. La differenza nella poetica tra i due grandi autori sta proprio qui: Lewis sbandiera, mentre Tolkien occulta; Lewis cerca di convertire, Tolkien seduce. Quale quindi il messaggio cristiano che traspare dalle loro opere e che, in qualche modo, può servire da monito e guida per questi nostri giorni odierni? Il tema centrale di entrambe le opere è l’eterna lotta del bene contro il male che tutti gli umani si trovano ad affrontare. Solo grazie alla forza di volontà, al coraggio e soprattutto loro fede e al sacrificio, l’uomo sarà in grado di combattere ed annientare il male. In Lewis tutto ciò è palese. Ne “Le Cronache di Narnia” l’autore sfrutta delle allegorie dietro a cui si celano molti simboli della religione cristiana, ad esempio Aslan, il leone, rappresenta l’emblema del bene che si sacrifica per l’umanità, tanto da essere ucciso per poi risorgere, collegandosi quindi metaforicamente a Cristo; oppure Edmund che tradisce i suoi fratelli, richiama la figura evangelica di Giuda che tradì Gesù. In Tolkien lo stesso messaggio va letto in filigrana. I suoi eroi non esplicitano tutto questo con gesti o parole, ma con atteggiamenti che invitano il lettore a pensare, ad immedesimarsi, e quindi ad apprendere.
Un esempio pratico è l’argomento “morte” ben sviscerato in ambedue le opere. Si, proprio la morte, per quanto possa sembrare strano in un’epoca come la nostra, che tenta di occultarla nelle immagini, che la trasforma nei film, ma la vede comparire nei notiziari di ogni giorno tra gli innumerevoli crimini, catastrofi, attentati. Quanti, in questi ultimi tempi, per paura di morire, hanno smesso di vivere? Entrambi gli autori non dipingono mai la morte come il male assoluto. Gli elfi di Tolkien non muoiono mai di morte naturale e soffrono per la loro immortalità. Sono quasi immobilizzati in uno stato senza speranza. Giungono a parlare della morte come di un dono fatto dal Dio supremo agli uomini, una liberazione dal peso di una vita sottoposta al tempo. Noi, infatti, non siamo fatti per abitare per sempre la Terra di Mezzo, qualunque sia il nostro attaccamento nei suoi confronti, e dobbiamo imparare a riconoscere la morte come un passaggio. Il messaggio cristiano è evidente, ma il mito di Tolkien non fa nessun richiamo alle implicazioni ultime del destino dell’uomo. E l’idea cristiana della “speranza” è presente anche in Lewis, proprio e soprattutto grazie alla vicinanza di questi a Tolkien. Lewis dice nel suo libro, per bocca dell’unicorno, che “i libri parlano solo di guerre e di invasioni. La pace è noiosa: una specie di pandemia del nulla, che nessuno ricorda volentieri”. “Riguardo all’altro nome di Aslan, vorrei davvero che fossi tu ad indovinare. C’è mai stato qualcuno in questo nostro mondo che: 1) giunse nello stesso periodo di Babbo Natale; 2) disse di essere il figlio del Grande Imperatore; 3) per la colpa di qualcun altro diede se stesso a degli uomini cattivi che lo derisero e lo uccisero; 4) tornò in vita; 5) viene alle volte chiamato l’Agnello (vedi la conclusione del Veliero)? Davvero non sai il Suo nome in questo mondo? Pensaci su e fammi sapere la tua risposta!” Così C.S.Lewis rispondeva ad Hila, una bambina americana lettrice delle sue fiabe. L’allegoria di Cristo nel leone Aslan è evidente, sfacciata. Il leone è figura di Cristo che vince il gelo/la morte del mondo offrendo se stesso per la salvezza di uno dei bambini protagonisti della fiaba, Edmund, colpevole di tradimento, e risorge a vita nuova, per essere con i suoi nella battaglia finale contro la Strega Bianca e le forze maligne che la accompagnano. Lewis fa di questa morte il fondamento della sua conversione. Lui stesso racconta agli amici che la difficoltà di fronte alla fede era la Dottrina della Redenzione nella sua interezza, in che modo la vita e morte di Cristo “avessero salvato” o “spalancato la salvezza” per il mondo? Quello che non riusciva a capire era come la vita e la morte di qualcun altro, chiunque questi fosse, duemila anni addietro potesse aiutare l’uomo moderno. L’amico Tolkien gli mostrò che il sacrificio e la morte in un racconto pagano non crea alcun problema: uno può esserne attratto e commosso. La ragione è che nei racconti pagani il mito non viene percepito nella sua profondità ed è difficile percepirne il significato La storia di Cristo, invece, non è semplicemente un mito, ma un mito che agisce su ciascuno noi con la tremenda differenza che questo è davvero avvenuto. Cioè, le storie pagane sono Dio che esprime Se stesso attraverso la mente dei poeti, facendo uso delle immagini che vi ha trovato, mentre il cristianesimo è Dio che esprime Se stesso attraverso quello che chiamiamo “realtà”. A pensarci bene, potremmo usare questa distinzione tra mito pagano e mito reale, per meglio identificare e stabilire chiaramente cos’è il romanzo Fantasy rispetto ad un comune romanzo di fantasia, non credete?
Vorrei concludere, infine, questa mia “trilogia” di articoli sul genere Fantasy con due righe personali per evidenziare il messaggio positivo che ci arriva da questi due straordinari autori e dalle loro opere.
La prima riga per dire che: qualsiasi età, qualsiasi cultura, qualsiasi livello sociale abbiamo raggiunto, abbiamo bisogno di una fiaba. Le fiabe hanno la capacità di donarci, nella fatica del vivere quotidiano – per dirla con Pavese- un attimo di gioia: «la caratteristica di ogni fiaba è che, per quanto siano terribili gli avvenimenti, essa è in grado di provocare nel bambino o nell’adulto che l’ascolta, un’interruzione di respiro, un sobbalzo del cuore, di portarci vicino alla commozione. E questa è la gioia del lieto fine.
La seconda è che le fiabe, molto spesso, parlano di orchi e di uomini malvagi, è vero; ma soprattutto insegnano che possono essere sconfitti.
” Siamo nati in un periodo buio. Ma c’è una consolazione: se fosse altrimenti non conosceremmo, e non ameremmo tanto, quello che amiamo. Immagino che il pesce tirato fuori dall’acqua sia l’unico pesce ad avere un vago sentore di che cosa sia l’acqua.”.
(Dalla Lettera di J.R.R. Tolkien al figlio Christopher)
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